L’importante è avere una storia.
La mia vita è un loop, mi capitano sempre le stesse situazioni, ma ancora non sono in grado di gestirle. Eppure avrei dovuto imparare molto tempo fa la lezione. Scena numero 1: sto discutendo la tesina appassionatamente scritta per l’esame di maturità. La tensione è altissima, ci ho messo tutto il mio piccolo sfrontato cuoricino per mettere insieme quella tesi, un po’ coraggiosa, un po’ fuori dagli schemi, un po’ da difendere. Mi sento sul banco degli imputati. Interviene il professore di Filosofia, mi fa una domanda su un argomento che avrebbe segnato la mia esistenza (ma chi poteva saperlo), faccio un figurone. Fu proprio lui a insegnarmi le basi: non è importante avere la risposta giusta, ma saperla giustificare. Mi alzo, ho in tasca il voto a 3 cifre, mi sto già rilassando, quando arriva la Domanda: e adesso a che facoltà ti iscriverai? Sono tutti lì che mi guardano con le stelle negli occhi, aspettano una risposta brillante. Prendo tempo, balbetto un “non ho ancora deciso”, vedo scivolare il mio 100 nello scarico del gabinetto, le facce sono diventate lunghe e grigie. Mi riprendo e la spunto: “Scienze politiche, farò la giornalista”. Sollievo nei volti (altrui). Ce l’ho fatta.
Cut, sono sempre io di fronte a un plotone, stavolta di colleghi. Sono passati anni e ho acquistato una certa consapevolezza, o almeno credo. Ognuno racconta storie divertenti su come è finito in questo carnevale della comunicazione, che un giorno sembra una giostra e il giorno dopo un girone dantesco. Arriva la domanda: e tu perché lo hai fatto? “Non so, mi ci sono ritrovata dentro”. Silenzio. Neanche a questo giro ero preparata. Maledizione. Ci voleva una storia. Possibile che proprio io, che sono cresciuta con chi ha reso famoso lo “storytelling” non abbia ancora capito la lezione? Mi appunto mentalmente che devo lavorare sul mio personale storytelling, mi viene un piccolo sussulto e sommergo questa idea tra i buoni propositi per l’anno che verrà tra qualche anno.
Nuova inquadratura, sempre io sotto interrogatorio, così a bruciapelo senza un minimo di preavviso. “E da cosa deriva questo tuo interesse per il cibo e per il vino?”. O porc… vorrei semplicemente rispondere “dall’interesse e dalla curiosità per la vita”. Metto insieme qualcosa di simile e mi ritrovo di fronte allo stesso volto: gli occhi che ruotano un po’ cercando un qualche appiglio, la bocca semiaperta, un linguaggio non verbale inequivocabile. “Tutto qui?”, mi sta dicendo.
Ancora non ho interiorizzato che mi serve una storia da raccontare. Eppure lavoro sulle storie altrui ogni giorno, le tiro fuori, talvolta con le pinze, talvolta con delicatezza, come si riavvolge un gomitolo di filo prezioso, le intesso, ci cucio comunicati stampa, ci faccio ricami colorati, li mostro in gran segreto a pochi eletti o li squaderno sotto il sole affinché si manifestino in tutto il loro splendore. Ricompongo le tessere del mosaico, le lucido, le restauro, le faccio brillare affinché emerga il disegno complessivo. Perché lo faccio? Se vi dicessi che fin qui non me lo sono mai chiesto, mi fareste la stessa faccia di cui sopra? Probabilmente sì.
Ma mentre parlavo semplicemente del mio lavoro con un amico che non vedevo da anni, raccontando quanto ero stremata da tutto quel che avevo fatto nelle ultime settimane, mi ha guardata e mi ha detto: “Sono veramente felice, non potrei immaginare un lavoro più adatto a te”. Vi basta come storia? A me sì, almeno per un po’.