In un mondo in cui “positivo” è diventata una brutta parola, anche i pensieri positivi hanno fatto il loro tempo. Se c’è una cosa che mi ha definitivamente stufato, oltre alla retorica dell’allarmismo, del buonismo e del qualunquismo, è la sbandierata necessità di essere allegri e vedere il lato positivo della situazione.
Certo, ci saranno delle cose di cui fare tesoro anche di questo periodo. Ma non mi convince affatto la teoria che il coronavirus ci renderà migliori. Avremo tutti sottoscritto un contratto per avere una rete internet migliore, ma non per questo saremo persone migliori. Non credo che basti rinchiuderci 2 o 3 mesi a casa per “riscoprire il valore di un abbraccio” o che basti esporre il tricolore alla finestra e cantare tutti in coro l’inno di Mameli per diventare patriottici. Alla fine di questa emergenza avremo fatto dei passi in avanti nella gestione del lavoro a distanza e mi auguro che avremo anche imparato che vale la pena investire di più nel sistema sanitario nazionale.
Ma adesso, in mezzo alla pandemia più sconcertante che si ricordi, dar prova di “essere positivi” non mi sembra necessario. Anzi, mi sembra decisamente vintage.
Questo bisogno di esporre il miglior sorriso sui social e dimostrare che tutto sommato è divertente, mi pare sia figlio di un’epoca decisamente tramontata. Quella di “tutti influencer”, tutti in business class, con lo Spritz in mano, l’experience più originale da sventolare, il panorama più figo da instagrammare, le rughe spianate dalle app e gli occhi ampliati ad arte per ingoiare l’ultimo incauto follower.
C’è un tempo per i pensieri positivi e uno per quelli negativi. Che possono rivelarsi produttivi, non necessariamente una roba di cui vergognarsi.
Ora è tempo di reinventarsi, di imparare un nuovo linguaggio per continuare a comunicare e sopravvivere nel mondo post-corona. Sempre che ne esista ancora uno. Personalmente non credo di voler continuare a vivere in una società che mi priva a periodi alterni dei diritti civili per cui hanno lottato generazioni e generazioni di persone. Tantomeno in un Paese che mi obbliga a mantenere le distanze e a indossare una maschera ogni volta che esco di casa (come se non bastassero quelle che ci mettiamo ogni giorno volontariamente). Se questo sarà davvero il nostro futuro, beh credo che sceglierò un futuro alternativo: mi ritirerò in alta montagna e vivrò di bacche e latte munto con le mie manine, andrò a studiare una comunità di orango nel Borneo, mi farò adottare da una tribù dell’Amazzonia, oppure diventerò una skipper e farò il giro del mondo in barca a vela. A questo giro, però, porterò qualcuno nel mio isolamento.