Sarebbe un bel colpo per l’orgoglio italiano se il futuro del vino si stesse scrivendo in Germania e Austria. Forse è per questo che anche diverse università italiane – tra cui quella di Udine – si sono messe al lavoro sui nuovi vitigni Piwi e hanno lanciato un appello per trovare dei nomi pronunciabili da sostituire a sigle numeriche senz’anima. Mai sentito parlare di vitigni Piwi? Beh, non siete gli unici. Qualcosa in rete si trova, cercando bene anche qualcosa di comprensibile.
Piwi (si legge PIVI) è l’abbreviazione simpatica di un’altra parola impronunciabile ai più, sul versante latino del mondo: pilzwiderstandfähig. In tedesco significa semplicemente “vitigni resistenti agli attacchi fungini”. Si tratta di incroci realizzati in vigna – con già una ventina d’anni di esperienza sul campo – per resistere meglio all’attacco dei funghi, ma anche a temperature sempre più ballerine.
L’associazione Piwi International nasce nel 1999 per tutelare i vignaioli sperimentatori e oggi conta 350 soci nel mondo, provenienti da 17 Paesi, tra cui l’Italia. Tutto comincia in Germania, appunto, dove vengono creati i primi vitigni Piwi, resistenti a peronospora, oidio e, in alcuni casi, a temperature più basse.
Tra i vitigni Piwi registrati ad oggi figurano sul fronte dei bianchi Fleurtai (Friulano x 20/3), Sauvignon Kretos (Sauvignon Blanc x 20/3), Soreli (Friulano x 20/3), mentre tra i rossi Cabernet Eidos (Cabernet Sauvignon x Bianca), Merlot Khorus (Merlot x 20/3) e altri nomi e numeri che difficilmente avrete incontrato nel corso di degustazioni o corsi per aspiranti sommelier.
Contrariamente a quel che si potrebbe pensare, la filosofia che guida la rivoluzione Piwi non è la ricerca della specie perfetta o delle minori perdite in vigna (gradita conseguenza dell’introduzione di questi particolari vitigni), ma la volontà di adattarsi alla natura, intervenendo il meno possibile nei vigneti.
I vitigni Piwi, infatti, non necessitano di trattamenti antifungini (95% in meno rispetto a quelli classici). A questa caratteristica i vignaioli Piwi affiancano spesso una passione per il bio. E’ il caso di Thomas Niedermayr, in Alto Adige, bio da 30 anni, che dal 1999 ha cominciato a impiantare i primi vitigni Piwi ai piedi del monte Gandberg, a circa 500 metri slm. Thomas Niedermayr ha fatto una scelta ancora più radicale, utilizzando solo lieviti indigeni, con scarso o inesistente controllo delle temperature in fase di fermentazione, contatto prolungato con le fecce fini e nessun filtraggio. L’affinamento avviene per metà in acciaio e per metà in legno, sempre neutro, sempre per la logica di valorizzare maggiormente il frutto.
Ogni bottiglia porta le iniziali del titolare, l’anno dell’impianto del vigneto e il nome del vitigno. L’unico tradizionale è il Pinot bianco, lasciato però a macerare sulle bucce per 2/3 gg per ottenere un risultato più carico e intenso. Per il resto sulle etichette si leggono nomi come Solaris (che ricorda vagamente lo Chardonnay ma in chiave più aromatica), Souvigner Gris, Bronner, Sonnrain, Abendrot. La vigna più “vecchia” è datata 1999, quella più giovane 2016, eccezion fatta per il Pinot bianco che vanta in etichetta un orgoglioso ’76. Oggi la produzione è di circa 30mila bottiglie all’anno. Vale la pena assaggiarli, ad esempio al prossimo Merano Wine Festival.