Come al solito sull’orlo del gong, ce l’ho fatta a vedere la mostra della rinascita del Centro Pecci di Prato. Il titolo, “La fine del mondo”, non poteva non catturarmi, me malata di fantasie apocalittiche e distopie fumettistiche. Ci sono andata senza troppe aspettative, però, anzi anche un po’ prevenuta sul fatto di potermi trovare di fronte le solite distopie fumettistiche, appunto. O la solita retorica pacifista (che pur qua e là fa capolino). Ne sono uscita con un’altra idea. Che la fine del mondo sia già qui e non sia poi tanto male.
La fine del mondo è un ritorno alle origini, un viaggio indietro nel tempo dall’urbanizzazione razionalista alle radici, simbolicamente rappresentato da un tunnel dentro un albero. È un viaggio al centro della terra, tra vulcani spenti e formazioni minerali millenarie di mille colori diversi.
È la fine dell’uomo, soverchiato dalle incontrastabili leggi dell’universo, dall’indifferenza della natura, dall’inesorabile trascorrere del tempo segnato da un metronomo implacabile.
La nostra vita è già un pezzo da museo, le nostre abitudini sono già fossili da studiare.
Le nostre monete, i pc, i telefoni, rappresentano già il passato. E non ce ne siamo accorti.
Il nostro tempo è macinato dal lavoro di incessanti betoniere.
Alla fine del mondo il cielo e la terra si scambiano i ruoli. Il giorno e la notte durano lo spazio di una stanza. Gli oggetti primordiali hanno la forma di tavole da surf e ali d’angelo di legno, navicelle spaziali salpano leggere nella nostra immaginazione, il mondo si gira in una scatola di cartone.
La fine del mondo è la totale perdita di senso dell’umanità, l’attesa di un futuro che non arriverà mai. Il mondo è già finito e siamo sempre qui. Ma dov’è qui?
La strada l’ho persa prima cercando il bistrot fantasma all’interno dell’astronave Pecci e poi, definitivamente, cercando di uscire da Prato. Mi sono ritrovata in via del Confine, manco a farlo apposta. Ed era dominata da un mega ristorante cinese.