Anche stavolta ce l’ho fatta ad andare a vedere una mostra sull’orlo del gong: Spiritual Guards, allestimento di Jan Fabre al Forte Belvedere fino al 2 ottobre 2016. Ne è valsa la pena.
Diciamo che l’opinione di Jan Fabre sulla religione è forte e chiara. Ma anche l’umanità non è che ci faccia una gran figura. Umanità strampalata, bestiale, sfigurata, ridotta a pezzi da macello o da esposizione, diretta da sogni virtuali, irrisa da sé stessa e tremendamente sola. Sempre e comunque sola con le sue bestemmie.
Amo l’arte dissacrante, ma di fronte ad alcune di queste opere ho pensato che mi stessero davvero prendendo in giro. Me, proprio me.
C’è l’uomo che si piscia addosso dalle risate, il bestiario delle teste umane da appendere sopra il camino, lo scarafaggio pastorale e c’è un uomo che tiene in equilibrio una gran croce, ma fa parecchia fatica. E poi c’è la disperazione di un uomo solo immerso in una vasca, convinto di toccare il cielo con un dito o forse consapevole di star toccare il fondo.
Dietro al Forte Belvedere, sul prato da cui si scorge quel che fu per Firenze un’altra fortezza (la Chiesa di San Miniato), c’è un campo di battaglia. Sull’erba i resti di una strana razza mezza animale e mezza gigante, ma comunque sterminata.
Il tutto festosamente coordinato da un improbabile direttore d’orchestra in tuta spaziale, che un po’ ci dirige e un po’ ci catechizza, con quella bacchetta.
Sullo sfondo Firenze, sempre lei, imperturbabile e muta, irriverente e irridente. Anche nei confronti dell’arte contemporanea. Perché alla fine Jan Fabre passa, Brunelleschi no.